28 APRILE 2025
Le recenti decisioni dell’amministrazione americana di imporre dazi su diverse nazioni hanno scosso il panorama del commercio globale, generando onde d’urto in svariati settori. Per comprendere appieno l’impatto di queste misure, ci siamo messi in ascolto e abbiamo raccolto le opinioni di chi si troverà a far fronte a queste sfide in azienda, per conoscere il loro punto di vista e le possibili strategie da adottare.
Enrico Roselli: trasformare la crisi in opportunità per il Made in Italy
Enrico Roselli, Senior Advisor, offre una lettura pragmatica della situazione. Pur riconoscendo i dazi come un potenziale ostacolo per un sistema orientato all’export come il Made in Italy, Roselli invita a ridimensionare l’allarme iniziale. Secondo la sua analisi, le mosse di americane potrebbero celare obiettivi più ampi, legati a dinamiche finanziarie e negoziali su altri fronti, piuttosto che rappresentare un attacco diretto al comparto italiano. Tuttavia, questa fase di incertezza può paradossalmente trasformarsi in un’opportunità cruciale.
Roselli sottolinea come questo scenario possa spingere l’Europa a rafforzare la propria autonomia strategica, intensificando i legami commerciali con l’Asia e riconsiderando le catene di approvvigionamento globali. “Per le aziende italiane del fashion e del lifestyle, si apre la possibilità di elevare ulteriormente il proprio posizionamento, puntando con decisione sull’eccellenza, sulla riconoscibilità del valore artigianale e sulla capacità di generare un desiderio globale.”
Nel suo lavoro con MiaMily e Stilema Milano, Roselli evidenzia strategie differenziate: per il brand svizzero con produzione in Cina e focus sul mercato USA, la priorità sarà “migliorare l’efficienza delle operations, monitorare attentamente il comportamento dei competitor“. Per Stilema Milano, realtà 100% Made in Italy, l’obiettivo sarà “orientarsi verso mercati europei che continuano ad apprezzare il valore dell’artigianalità e del design italiano”. Roselli conclude con un auspicio: che il sistema Italia sappia fare fronte comune, puntando su efficienza, innovazione e un posizionamento di alta gamma per trasformare questa instabilità in un motore di crescita.
Gianluca Zani: un impatto differenziato tra Mass Market e Lusso
Gianluca Zani, Chief Commercial Officer di Kantar, grazie alla sua prospettiva basata sul confronto quotidiano sui dati dei clienti provenienti da molteplici analisi, delinea un impatto eterogeneo dei dazi a seconda della tipologia di prodotto Made in Italy. Per i beni di largo consumo, in particolare nel settore alimentare, la preoccupazione è palpabile. “Se si confermassero dazi così pesanti si prevede una forte contrazione della domanda ed un innalzamento dei prezzi delle materie prime”, avverte Zani.
Diverso è lo scenario per i prodotti di lusso. Per questi, “l’effetto dei dazi sembra suscitare meno preoccupazione. Il target di riferimento e l’eccellenza/escusività dei prodotti è ancora fonte di protezione da queste dinamiche/guerre commerciali”.
Tuttavia, Zani sottolinea come questa situazione induca comunque le aziende a una maggiore cautela. “Piani di espansione commerciale e di allargamento geografico rischiano di essere messi in stand by, la produzione può rallentare per evitare che l’offerta sia superiore alla domanda”. Internamente, Kantar sta monitorando attentamente l’evoluzione della situazione, con l’intenzione di condurre una ricerca dedicata a raccogliere evidenze empiriche sull’impatto dei dazi sia sui consumatori che sulle aziende.
Romano Cappellari: delocalizzare il Lusso negli USA? Una scelta complessa
Romano Cappellari, professore in Marketing e Retailing all’Università degli Studi di Padova e direttore del major in Retail Management di Luiss Business School a Milano, affronta una questione spinosa sollevata dai nuovi dazi: la convenienza di spostare la produzione del lusso negli Stati Uniti per servire direttamente questo mercato. In un contesto di incertezza normativa, Cappellari ritiene irragionevole considerare investimenti di tale portata.
Tuttavia, ipotizzando una stabilizzazione, il trasferimento della produzione europea di beni di lusso si scontra con due ordini di ostacoli significativi. “In primo luogo, va valutato quanto il Made in Italy/France aggiunga valore al prodotto nella percezione dei consumatori americani”, spiega Cappellari.
In secondo luogo, richiama l’attenzione sulle sfide operative legate all’avvio di nuove produzioni in un contesto diverso; come evidenziato dall’articolo “The Problem with Louis Vuitton’s Texas Factory” di The Business of Fashion, prendendo in esame il caso della fabbrica di Louis Vuitton in Texas, ancora considerata una “young factory” con la quale essere “patient”.
Le alternative, dallo scaricare i dazi sui consumatori o assorbirli riducendo i margini, appaiono ugualmente problematiche. “Nemmeno le alternative […] sembrano dunque indolori”, conclude Cappellari, sottolineando le potenziali ripercussioni negative anche per chi negli Stati Uniti lavora nella distribuzione e nella comunicazione di questi brand.
Marco Ruffa: Lusso resiliente, Fast Fashion vulnerabile
Marco Ruffa, General Manager di Data Life, invece dipinge uno scenario in cui la guerra delle tariffe sta ridefinendo le dinamiche del mondo della moda in modo asimmetrico. “Ecco perché gli ultimi dazi americani colpiscono in modo asimmetrico: l’impatto non sarà lo stesso per la piccola manifattura toscana e per il colosso dello sportswear che ha stabilimenti in ogni angolo del Sud-Est asiatico”.
Il lusso, forte del valore percepito del Made in Italy, dimostra una notevole capacità di assorbire rincari. “Borse, scarpe e capi dal prezzo elevato rimarranno sempre desiderabili a un pubblico che non rinuncia alla qualità, neanche di fronte a una dogana più salata”, afferma Ruffa. La situazione si complica per il fast fashion e i brand sportivi con una produzione prevalentemente asiatica. “Per marchi come Nike […] i nuovi dazi rischiano di trasformarsi in un boomerang: alzare i prezzi significa spaventare il consumatore mainstream, assorbire l’extra costo vuol dire intaccare i margini”.
Ruffa osserva come alcune aziende stiano esplorando strategie di “nearshoring” o “friend-shoring”, ma sottolinea che garantire la qualità richiede tempo. “Nel complesso, si delinea un panorama dove le maison del lusso […] si trovano meno vulnerabili alle barriere, mentre i colossi del fashion globale potrebbero pagare il conto più salato”. Tuttavia, ogni crisi offre anche opportunità per nuove soluzioni. “A mio parere, questa stagione di tensioni commerciali ci ricorda che la moda non è soltanto creatività ed estetica, ma anche strategia, programmazione e capacità di adattarsi a un contesto geopolitico in costante mutamento”.
Roberto Liscia: protezionismo digitale e dazi minacciano il Made in Italy
Roberto Liscia, Presidente di Netcomm, pone l’accento su una prospettiva più ampia. “I dazi, insieme al crescente protezionismo digitale, rischiano di penalizzare fortemente le aziende italiane del Made in Italy, soprattutto le PMI”. Queste misure, spiega Liscia, non solo ostacolano la circolazione delle merci, ma compromettono anche i flussi di dati cruciali per le moderne filiere.
“Senza accesso a informazioni e tecnologie globali, come l’intelligenza artificiale, le imprese perdono in efficienza e competitività”. In questo contesto, “è fondamentale lavorare su regole globali condivise che garantiscano uno scambio libero di beni e dati, per tutelare l’innovazione e l’accesso ai mercati internazionali”.
Simone Panfilo: l’imprevedibilità come ostacolo primario
Simone Panfilo, Chief Executive Officer di Qeeboo, focalizza la sua analisi sull’elemento più critico. “Sicuramente uno degli aspetti più problematici è l’imprevedibilità del momento. L’incertezza rende difficile pianificare, avere una visione chiara di quello che ci aspetta”. Questo senso di instabilità, spiega Panfilo, è presente da tempo e si è acuito con le recenti decisioni. “Il fatto che le decisioni possano cambiare direzione da un giorno all’altro non aiuta in alcun modo i flussi commerciali verso gli Stati Uniti”.
Nonostante Qeeboo produca quasi interamente in Italia, la situazione rimane complessa. Panfilo evidenzia come il mercato del design americano sia fortemente dipendente dalle importazioni asiatiche. “Se i dazi verso l’Europa dovessero restare al 10%, mentre quelli verso l’Asia fossero molto più alti, allora – paradossalmente – per il cliente finale americano l’aumento dei costi legato all’import europeo sarebbe meno impattante rispetto a quello dei prodotti asiatici”.
Tuttavia, la preoccupazione maggiore riguarda le conseguenze indirette dei dazi. “Il rischio di recessione, per esempio, oggi appare molto concreto”. In sintesi, “c’è sicuramente una preoccupazione diffusa e un forte disagio legato all’incertezza che questa situazione genera”.
Marco Bettiol: navigare in una terra incognita
Marco Bettiol, professore associato di Business Management presso l’Università di Padova, definisce l’attuale approccio americano ai dazi come “qualcosa di inedito per intensità, per estensione e per modalità di calcolo”. Reso ancora più problematico dai continui cambi di direzione, secondo Bettiol, “per gli operatori economici si tratta della situazione peggiore possibile. Si è innescato un processo di cui non solo non si conoscono gli esiti ma nemmeno il processo di evoluzione“. La reazione più logica per le aziende è un “wait and see”.
Analizzando l’impatto sul Made in Italy, Bettiol suggerisce di distinguere almeno due categorie. Per i settori più noti, “i dazi saranno uno stress test per verificare il capitale simbolico che è connesso alle produzioni italiane”. Per il “Made in Italy medium tech“, la sfida è “rendere ancora più evidente quella componente non solo manifatturiera ma di servizio che è legata alla produzione di queste tecnologie”.
L’incertezza potrebbe portare a un blocco degli investimenti, spingendo le aziende a sviluppare servizi a valore aggiunto. Nel lungo termine, Bettiol ipotizza un potenziale cambio di modello di business verso la “servitizzazione“. “Questa soluzione avrebbe il vantaggio di evitare i dazi (se non cambiano nel frattempo) ma richiede un modello gestionale del tutto diverso e soprattutto richiede una finanziarizzazione dell’impresa”.
Jacopo Laganga: una strategia per scuotere i mercati e mettere pressione sulla FED
Jacopo Laganga, Head of Digital Commerce di Pinko, interpreta la strategia dei dazi americani come un tentativo di “creare uno shock nei mercati“. In un contesto di tassi elevati e inflazione, “c’era quindi la necessità di innescare una correzione forzata, generando una reazione dei mercati”.
Un secondo obiettivo sarebbe “inviare un segnale forte alla Federal Reserve per ottenere un abbassamento dei tassi d’interesse“. Tuttavia, questa strategia non si sta dimostrando particolarmente efficace, portando a frequenti modifiche.
Dal punto di vista pratico, per Pinko, Laganga spiega: “al momento siamo protetti dal fatto che i dazi sui prodotti made in China si applicano solo agli ordini superiori agli 800 dollari”. L’eliminazione di questa soglia potrebbe portare a bloccare alcuni prodotti. Un’altra soluzione potrebbe essere “spedire i prodotti dall’Italia alla consociata a un prezzo wholesale“, calcolando il dazio su tale valore. Infine, Laganga analizza come la speranza degli USA di spingere verso i treasury bond non si sia concretizzata, il che “costringerà gli Stati Uniti a trovare un nuovo accordo commerciale e finanziario“.